La solitudine di chi emigra

Da quando siamo emigrati la prima volta (e già qui si apre un capitolo sul “ma quante volte siete emigrati”, “emigrati da quale madrepatria”) insieme all’ esperienza di crescita personale nello scoprire un paese con una cultura e una lingua diverse (e ti pare poco?), abbiamo vissuto un cambiamento molto più  profondo nel nostro modo di pensare, nell’ accezione più intima del termine “modo”: vivere in un paese di cultura e di lingua straniera ha degli effetti sui processi cognitivi che normalmente non vengono “messi in discussione” se si resta nello stesso ambiente. Chiedo venia agli esperti di tutte le discipline che si occupano dello studio della mente e della psiche umana per l’ imprecisione dei termini che uso: sono “solo” un ingegnere che racconta la sua esperienza. Imparare la lingua del posto ti permette di risolvere le questioni di vita quotidiana, di cavartela, ma si tratta del livello più superficiale di immersione nella cultura del posto. Se emigri in un paese di cui parlavi già la lingua, chi lasci non capisce nemmeno il problema (“tanto tu lo paravi già bene l’ inglese, no?”), se devi affrontare una lingua nuova si va dal “oddio ma come fai a imparare una lingua così diffcile come il tedesco” oppure “ma il francese è facile per un italiano”. Sono tutte cose vere, solo in superficie. Ti trovi immerso in un mondo in cui ovunque non senti i suoni e le parole nella tua lingua e senti continuamente suoni e parole di un’ altra lingua. Che siano suoni duri e intimidatori per te (come il tedesco per un madrelingua italiano) oppure eleganti (come il francese per un madrelingua italiano), comunque si tratta di un ambiente alieno per quella sfera intima della tua mente delle sonorità linguistiche a cui sei abituato e che non hai mai messo in discussione: ti sei sempre posto il problema di saper comunicare, non quello di assorbire passivamente i suoni di un’ altra lingua, sempre e ovunque, non solo al cinema o con il corso di lingua (“in cassette” una volta, ora “online”).

I numeri e i calcoli si imparano nella lingua in cui si frequentano le scuole elementari. Tutt’ ora a 50 anni suonati se devo fare un calcolo, indipendentemente dalla lingua  in cui sto parlando, faccio il conto in italiano e traduco prima e dopo da/verso l’ altra lingua. Contare ad alta voce in una lingua diversa dalla propria richiede il doppio dello sforzo. Se poi si tratta del tedesco in cui dopo il 20 le unità e le decine vendono dette e scritte in ordine invertito (1234 si dice “milleduecento quattro e trenta”), lo sforzo è triplo, a cui si aggiunge la necessità di farlo capire ai locali che insistono a non rendersi conto che “quattro e trenta” è 34 leggendo da destra a sinistra (ho suscitato parecchi sguardi vuoti e, solo dopo parecchi secondi, i più intelligenti se ne sono resi conto, forse per la prima volta: avevano bisogno di una voce straniera per farlo notare? mah?). Con i francesi va meglio: far notare che dopo il 69 ho bisogno di fare i conti nella mente (75 si dice “sessanta-quindici” 60 + 15 = 75 ) e poi tradurre suscita uno sguardo di sorpresa per un paio di secondi e poi porta il francese medio (che capisce al volo queste cose) a scandirti le cifre se ti dice il prezzo o il numero di telefono. Se chiedo “sessanta-diciannove è 7 – 9 ?” la persona di solito sorride, coglie al volo la questione e conferma.

La cultura di un paese è come un iceberg: solo la punta emerge oltre la superficie dell’ acqua, la maggior parte resta sommersa. Vivere in un paese diverso da quello in cui si è cresciuti significa partire da sottintesi, premesse, idee, anche dogmi a volte, così profondi da non rendersene nemmeno conto.  Quando parli con i locali, il punto da cui parte l’ interlocutore è diverso dal tuo. Se gli devi spiegare quello che per te è così ovvio da non rendertene nemmeno conto, hai voglia trovare un punto di condivisione e un senso di appartenenza.

Un esempio sciocchino: in Austria e in Germania la portata principale (lasciamo stare l’ idea di “primo” e “secondo” che esiste solo in Italia) viene servita con già incluso il contorno che comprende sempre le patate. Il pane non si usa in accompagnamento del “companatico” (appunto: quello che si mangia insieme col pane). Se da un lato un tedesco non capisce la necessità del pane su cui non hai niente da spalmare (l’ Abendbrot mit aufstrich), un italiano a cui lo racconti ti domanda se non puoi chiederlo  al cameriere e fartelo servire, così risolvi il problema pratico. Se vuoi il pane lo devi chiedere esplicitamente, la richiesta è peculiare, ti viene servito, a seconda dei casi, il pane che è disponibile (un paio di fette di pane in cassetta, un Bretzel oppure un Semmel) e poi viene contabilizzato il pezzo di pane che hai preso nel conto finale. La questione non è pratica, ma culturale: mi piace mangiare in un ristorante dove mi viene portato il cestino del pane e sia il pane che l’ acqua del rubinetto (la caraffe d’ eau in Francia) sono disponibili a volontà. (e, no, nessuno se ne approfitta e chiede due chili di pane o dieci litri d’ acqua, come si domanderebbe un tedesco ingenuo e nemmeno i tedeschi sono tirchi nel contabilizzarti i singoli pezzi di pane come commenterebbe un italiano ignorante: il pane è considerato come un extra, tanto quanto in Italia la voce “pane e coperto”). Mi piace mangiare in un posto in cui non devo chiedere il pane e l’ acqua. Se vado in un bar e chiedo un cappuccino, non voglio dover spiegare “con la schiuma di latte, non con la panna” perchè in alcuni posti c’ è l’ alternativa, in altri se non specifichi “latte” ti portano il caffè con la panna (che, accidenti alla precisione teutonica è una cosa diversa, pure buona, ma la definizione di cappuccino è unica).

Queste cose ne gli uni (chi lasci dove parti) ne gli altri (chi ti ospita in casa sua) le capiscono. C’ è chi si chiude nel gruppetto della piccolaItaliaAllEstero, dove gli italiani si lamentano di quanto fa schifo il posto in cui si sono trasferiti, si trovano per cercare la pizzeria ovunque e se ne fregano degli strafalcioni della ristorazione italiana all’ estero: basta che mi arrivi nel piatto la mia pizza, non mi interessa quello che c’ è intorno.

Chi sceglie di crescere ed aprire i propri orizzonti, si trova a vivere  sospeso tra due mondi e poi si accorge di essere in una dimensione culturale superiore, un passo sopra entrambi i mondi, nella sfera di chi non ha un’ unica identità culturale, ma è davvero multiculturale.

Quando parlo con italiani che incontro all’ estero, dopo qualche minuto percepisco a livello epidermico come, nonostante la lingua, i presupposti da cui l’ altro italiano parte (la parte sommersa dell’ iceberg culturale) che per lui/lei non sono nemmeno in discussione, non sono condivisi da me (e molti non lo erano nemmeno quando vivevo in Italia e non avevo consapevolezza dell’ iceberg culturale, mi sentivo solo estranea a certi modi di fare e di intendere comunemente condivisi).

Pochissime persone capiscono la solitudine mentale di chi emigra, non si integra con i locali e nemmeno si isola da loro, non lascia un’ identità culturale mono-bandiera per un’ altra (quanti mi hanno detto “ormai sei diventata austriaca”, “ma tu nel profondo ti senti italiana”) ma cresce, acquisendo un’ identità culturale più complessa e articolata, che nel mio caso mi porta a sentirmi “solo” europea.

Il mio modo di pensare (nel senso intrinseco della parola: i presupposti da cui parto e la maniera con cui maneggio i concetti e le situazioni che mi si presentano, il modo i cui affronto i problemi) ora è unico e solo mio, frutto di quello che ho scoperto, tenuto o lasciato dalle varie culture che ho conosciuto. Non posso incasellarlo in una definizione (cosa che manda in tilt tedeschi e austriaci: non corrispondo all’ idea che loro hanno degli italiani/degli ingegneri/delle mamme che lavorano/di qualunque cosa) e nemmeno in una tradizione (per gli italiani si va dal “tu dici/fai così perchè sei mamma/ingegnere/espatriata/quello che vuoi” al “qui si è sempre fatto così, là si fa diversamente”).

Avere una cultura e della tradizioni con cui identificarmi mi offrirebbe l’ agio di non sentirmi sola, di avere sempre una risposta pronta alla maggior parte delle situazioni, magari non la migliore ma almeno una, oppure di offrirmi un riferimento culturale contro cui ribellarmi, uno schema da rompere, ma comunque, anche se in negativo, un riferimento.

Essere sola e unica ad un palmo da quello che ho visto intorno a me (non tanto più in alto, ma quello che basta per essere staccata dalla base, essere, appunto, “ad un palmo da terra”), mi chiede costantemente di decidere da sola che strada scegliere, con tutta la mia responsabilità evidente delle scelte di strade non già battute, insieme alla grande libertà da tutti i preconcetti di ogni tradizione. Lo sforzo è costante, il ritorno è grande: non si corre il rischio della mediocrità nel medio termine di scelte fatte a metà, basate solo su tradizioni o mode (se lo fanno tutti, non può essere tanto sbagliato e se si rivela un fallimento, la responsabilità della scelta, apparentemente, non è tutta mia).

La solitudine è enorme.